di Roberto Saliola

Manageritalia

Nato a Roma, sposato, due figlie, laureato in Scienze Politiche, dirigente dal 1999. Ho esperienza ventennale nel settore delle PMI, con riferimento sia alla creazione d’impresa che alla fase di start up, maturate in Iritecna prima, in Sviluppo Italia e poi in Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa). Sono stato consigliere d’amministrazione dei BIC Umbria, Sardegna e Calabria. Ho allestito e gestito progetti di cooperazione internazionale, per la maggior parte finanziati dalla UE e rappresentato l’Italia in Comitati internazionali (gruppo di lavoro italo-vietnamita e italo-ungherese istituto dal MISE e Commissione ONU, UN-ECE, per riduzione della povertà attraverso la creazione di imprenditorialità). Sempre in ambito internazionale, sono direttore operativo della Hash Italia srl, società di servizi italo-israeliana. Sono stato Presidente della società di servizi GPA srl. In Manageritalia attualmente ricopro la carica di Presidente di Manageritalia Lazio, Abruzzo, Molise, Sardegna e Umbria. Sono stato consigliere di amministrazione di società e fondi contrattuali di Manageritalia. In Manageritalia, oltre ad occuparmi dei rapporti istituzionali dell’Associazione, seguo le linee progettuali dell’innovazione e dell’inserimento manageriale nelle PMI. Sono componente del CdA e Vice Presidente di Fondir, oltre ad occuparmi di progetti speciali (progetti di collaborazione con Enti Pubblici, progetti per l’innovazione e l’inserimento manageriale nelle PMI).

La Quarta Rivoluzione Industriale: Prospettive ed Evoluzioni per il Lavoro e le Organizzazioni

Come tutte le innovazioni tecnologiche, anche quella che stiamo vivendo ha potenzialmente una capacità liberatoria per gli individui e le società.

In maniera didascalica la storia industriale registra, con la presente, quattro rivoluzioni industriali, dove un cambiamento tecnologico ha mutato e trasformato non solo l’apparato produttivo, ma anche il contesto sociale ed economico.

La prima rivoluzione industriale datata tra la fine del 18° secolo e i primi decenni del 19° è la cosiddetta rivoluzione del vapore, nella seconda, datata intorno al 1870, viene introdotta la catena di montaggio e la forza motrice è rappresentata dall’energia elettrica, infine, la terza, che si colloca alla fine del secolo scorso, è la rivoluzione industriale caratterizzata dall’elettronica.

La quarta sarà la rivoluzione dell’intelligenza artificiale e dell’integrazione tra macchine

Questa quarta rivoluzione industriale probabilmente sarà una rivoluzione dalle grandi ricadute sugli aspetti umani e sociali. Assisteremo ad un aumento della produttività e molte attività pesanti o routinarie andranno incontro ad una sempre maggiore riduzione dello sforzo necessario per il proprio svolgimento.

Una prima conseguenza sarà un aumento del tempo a disposizione delle persone e da questo tempo libero potranno nascere istinti che aspettavano solo di essere liberati in campi quali l’arte, la creatività, l’innovazione. Si avrà un maggiore accesso alle informazioni e grazie ai big data si potranno comprendere, studiare e analizzare i fenomeni come non è mai successo nella storia dell’uomo.

Ma c’è l’altra faccia della medaglia. Dato per scontato l’enorme potenziale della tecnologia, sarà poi sempre il suo utilizzo a determinarne i risultati. E questo condiziona e condizionerà l’effetto positivo che la tecnologia ha su di noi, in termini di libertà, ma anche di competenze necessarie e di quella che Keynes chiamava “la disoccupazione tecnologica”.

John Maynard Keynes già all’inizio novecento parlava di “disoccupazione tecnologica” sostenendo che l’automazione avrebbe progressivamente tolto l’uomo dal mercato del lavoro sostituendolo con macchine più efficienti.

Oggi è necessario continuare ad istruirsi e riqualificarsi

La storia economica non ci permette di avere risposte certe su quelle che saranno le ricadute sul futuro mercato del lavoro. Se un tempo bastava spostarsi dalle campagne alle città per trovare lavoro oggi è necessario continuare ad istruirsi e riqualificarsi in modo da restare sempre al passo con i tempi e seguire i mutamenti che il mercato del lavoro subisce nel corso degli anni.

Uno dei motivi per cui quanto sostenuto da Keynes non si è ancora avverato va rintracciato nel fatto che la sostituzione dell’uomo con la macchina ha sempre portato ad un efficientamento dei processi, ad un aumento di produttività e quindi ad una riduzione dei prezzi di vendita. La conseguenza diretta a tale fenomeno è un aumento del reddito reale che permette l’aumento di domanda in settori nuovi andando ad aprire quindi nuovi spazi occupazionali.

Se fino ad ora la “disoccupazione tecnologica” è rimasta solo una preoccupazione, molti economisti iniziano a temere che da qui a poco si possa realizzare quanto predetto tempo fa da Keynes.

La rivoluzione in atto sta innegabilmente anche trasformando il mondo del lavoro, aumentando l’obsolescenza delle competenze e delle professioni. Le macchine tendono a sostituire via via l’uomo non solo in attività ripetitive ma anche in processi di analisi e talvolta decisionali, mentre vengono valorizzate le competenze connesse con la creatività, il pensiero laterale, la capacità empatica, relazionale e comunicativa, le valutazioni etiche.

Alcune forme di “intelligenza” possano rappresentare le chiavi del futuro, come la capacità di elaborare modelli interdisciplinari di interpretazione della realtà, come la capacità di sintetizzare e rendere comprensibili i dati, come la capacità creativa, intesa come risposta che per la sua elaborazione utilizza diversi punti di vista, piuttosto che la capacità di mettersi in relazione con gli altri, rispettandone emozioni e posizioni o infine di comportarsi in modo eticamente corretto.

Diventerà relativamente più facile trovare lavoro per operatori poco qualificati

Per effetto della “polarizzazione” del lavoro, ovvero di un fenomeno che vede un continuo aumento di domanda di lavoratori che si trovano alle estremità più alte e più basse dello spettro delle competenze, diventerà relativamente più facile trovare lavoro per operatori poco qualificati che svolgono mansioni non routinarie la cui sostituzione con macchine diverrebbe troppo costoso, oltre che complesso dal punto di vista ingegneristico.

All’altro lato dello spettro troviamo i lavoratori definiti “high skilled”, con competenze manageriali e per i quali la tecnologia non è ancora in grado di fornire soluzioni realmente sostitutive.

Le zone di lavoro e i lavoratori non ricompresi nelle due estremità saranno quelle per le quali l’intelligenza artificiale potrà essere realmente sostitutiva.

Il grande rischio è che molti lavoratori non colgano il cambiamento rischiando di essere lasciati indietro nel tempo. Diviene così fondamentale modificare in modo profondo le regole del mercato del lavoro.

Fino agli anni Settanta, la maggior parte delle persone viveva una vita di apprendimento, formazione e lavoro, dal percorso “normale”: c’era infatti la gioventù (il periodo della formazione), poi l’attività professionale e infine il pensionamento, tutte fasi che seguivano un percorso lineare. Nella società attuale singoli periodi della vita diventano fasi di passaggio che si incrociano, che comportano interruzioni (si pensi ai periodi di disoccupazione, o agli aggiornamenti) o che proseguono (con la formazione continua) e si ripetono riavviando un ciclo continuo di formazione e nuovo inserimento lavorativo.

Nella vita lavorativa si pretenderà sempre di più un adattamento continuo ai mutamenti. E ciò richiederà disponibilità ad un apprendimento che dura tutta la vita.

Cresce la necessità di rinnovare continuamente il proprio sapere per tutto l’arco della vita

Questo è vero anche perché la validità delle conoscenze “dura” sempre meno. Conoscenze acquisite solo pochi anni prima con tanta fatica sono già superate perché è cambiato il contesto e sono cambiate le necessità espresse del mondo del lavoro.

Quindi, non basta più adagiarsi sulle nozioni tecniche apprese tempo addietro. Cresce invece la necessità di rinnovare continuamente il proprio sapere per tutto l’arco della vita. E ciò vale per qualsiasi posto di lavoro, dal più semplice a quello manageriale.

Le risorse tecniche quindi da sole non sono più sufficienti, non caratterizzano realmente quello che le imprese richiedono ai propri dipendenti, in un contesto dove competizione e libero mercato imperano.

Quello che completa e rende vincente la dotazione di base di competenze tecniche sono le competenze chiave, le cosiddette “soft skill”, ovvero quelle competenze aggiuntive, trasversali, che integrano le “hard skill”, costituite appunto dal know-how prettamente tecnico.

Le competenze chiave, le soft skill, non sono quindi direttamente riconducibili alla professione, ma consentono un impiego efficace delle competenze tecniche, ad esempio attraverso competenze organizzative, relazionali, attraverso competenze che riguardano la personalità, come lo spirito d’iniziativa, la motivazione, l’empatia, la capacità di esercitare leadership.

Al concetto di resilienza Taleb ha affiancato il concetto di antifragilità

Cambiamenti personali e cambiamenti organizzativi: evoluzione, formazione ed adattamento. Viene alla mente il concetto di resilienza a cui Taleb ha affiancato il concetto di antifragilità: cioè quella caratteristica propria di un sistema di migliorare, adattarsi al cambiamento ed evolvere, nutrendosi dell’incertezza.

La ricetta per diventare antifragili e far diventare antifragili le nostre organizzazioni risiede nel far sì che si aumenti la responsabilizzazione dei ruoli e le competenze delle persone, aumentandone la capacità creativa anche grazie a tecnologie abilitanti e con analisi uniche ed autorevoli di foresight ed interpretazione del mondo che cambia. L’adattabilità dei sistemi e quindi delle persone ai cambiamenti risiede, di fatto, nella capacità di rendere sempre meno rigidi i sistemi stessi e le competenze delle persone.

Il percorso di aggiustamento e affinamento delle competenze sarà anche un percorso culturale: le aziende più pronte a vivere nel nuovo mondo quanto prima capiranno che la flessibilità mentale dei manager, la capacità di esercitare leadership e creare gruppo e la creatività avranno la meglio sulle specializzazioni tecniche che una volta caratterizzavano le scelte ed il recruitment, tanto prima saranno competitive sul mercato globale.

È anche un processo culturale, non è semplice né automatico

Questo però, essendo un processo, come detto, che per molti aspetti è anche un processo culturale, non è semplice né automatico. Il pericolo che vedo quindi è quello di un pericoloso mismatch tra domanda ed offerta di professionalità, dove il sistema di formazione e manutenzione delle competenze deve essere pronto a recepire, interpretare e rendere disponibile l’insegnamento di competenze trasversali superando quel paradigma culturale che ancora spesso vede la formazione avere un ruolo “riparatore”, di intervento successivo al verificarsi di situazioni che hanno messo a rischio le performance aziendali; una visione ereditata dal passato nella quale il processo di erogazione dell’offerta formativa aziendale aveva da sempre dovuto fare i conti con il modello di insegnamento scolastico, piuttosto che ritenerla uno strumento di promozione di nuove competenze e professionalità, adatto alla complessità odierna.

Requisiti necessari diventano allora la capacità di sapersi adattare a lavori diversi da quelli prospettati dal titolo di studio nonché la capacità di gestire la complessità e l’instabilità stessa del sistema.

Possedere le fondamentali abilità cognitive, sociali, emotive e relazionali è elemento predittivo di successo nella ricerca di lavoro e successivamente di buone prestazioni professionali.

Questo per dire che le aziende oggi si stanno rendendo conto che per rimanere competitive devono gestire esplicitamente le loro risorse intellettuali e le competenze dei propri dipendenti, competenze intese come caratteristiche intrinseche di un individuo, direttamente correlate ad una prestazione efficace.

La gestione della conoscenza tende alla trasformazione in capitale strutturale del capitale intellettuale, costituito non più solo da risorse immateriali come brevetti, marchi, rapporti con la clientela ecc, ma anche da skill, esperienze e competenze delle persone inserite nell’organizzazione, in un umanesimo manageriale che potrebbe sempre più caratterizzare l’approccio manageriale e lavorativo alla Quarta Rivoluzione Industriale.